Quando ti arriva addosso quella roba lì
Venerdì, dopo tante discussioni, Emma è rimasta
a Cambridge, a casa della sua amica Cece, per cui a Becket ci saremmo andati
solo io, Dan e Luca. Verso le sei siamo andati a fare la spesa da Whole Foods,
il supermercato vicino a casa che ha anche un angolo con dei tavoli per poter
mangiare, e dopo la spesa e una cena veloce, siamo finalmente partiti. Avevo,
mesi prima, creato una playlist su Spotify con tutte le canzoni preferite di
Luca, che abbiamo ascoltato durante le due ore di viaggio. Arrivati a Becket,
abbiamo acceso il camino, il riscaldamento, abbiamo messo via la spesa e ci
siamo finalmente seduti a chiacchierare mentre Luca ascoltava per la
decimillesima volta Berta Filava, ma fortunatamente in camera sua, con la porta
chiusa.
Eravamo contenti perché il giorno dopo sarebbe
venuta a trovarci la mia cara amica Martina. Ci siamo conosciute a Brooklyn
tanti anni fa, quando Sofia e sul figlio Konrad avevano cinque anni e erano diventati migliori amici. Martina è altissima, ha i capelli lunghi sempre legati e
un forte accento tedesco. È una di quelle rare persone che anche se non vedo o
non sento per un anno, ogni volta che ci rincontriamo è come se ci fossimo
viste la sera prima. Veniva a Becket con suo figlio, che va all’università a
Amherst, un paesino a 45 minuti di Becket e a dieci da Northampton, dove invece
va a scuola Sofia. Domenica, prima di ritornare noi a Cambridge e lei a
Brooklyn, avremmo pranzato con i ragazzi che non si vedevano dalla seconda
elementare.
Sabato pomeriggio, mentre stavo mettendo su i
punti per farmi un gilet, ho sentito bussare alla porta a vetri: era un uomo
con la barba e i capelli lunghi, alto, bellissimo. Io mi sono alzata per andare
ad aprire e dietro di lui c’era Martina. Konrad?!? È diventato un uomo! L’avevo
lasciato che aveva sette anni emmezzo, e giocava con Sofia a calcio o ai
giardinetti. L’abbraccio è stato lungo e gonfio di mille ricordi. Martina, che avevo rivisto qualche mese fa, è entrata e si è subito sentita a casa. È
quello che mi piace di lei: pochi complimenti, pochi cerimoniali. Abbiamo
chiacchierato tutta la sera. Quando Konrad, Dan e Luca sono andati a letto,
siamo rimaste io, lei e il fuoco nel camino, e abbiamo finalmente parlato di
tutto, come sempre, fino alle due di notte.
La mattina dopo ci siamo alzati e ci siamo
preparati in fretta: Sofia aspettava premurosa il nostro arrivo, incuriosita
dalla foto che le avevo spedito del suo amico: “In che senso non ha più sette
anni e ha la barba?!?”, mi ha risposto confusa. Il pranzo al pub è andato ancora meglio del previsto: lei brillava di felicità e raccontava
parlando velocissimo un sacco di cose a Konrad, che la ascoltava divertito e
cercava ogni tanto di interromperla per raccontare un po’ anche lui. Impacciati
tutti e due, bellissimi e dolci, avevano anche loro ritrovato il filo del
discorso.
Durante la lunga camminata, loro erano avanti di
una ventina di metri rispetto a noi, a chiacchierare e a ridere. Io e Martina
già ci vedevamo consuocere, a cena da lei per Natale. “You are crazy!”,
rispondeva Dan ridendo.
Poi ci siamo tutti salutati. Sofia è tornata in
camera sua, Martina e Konrad sono andati a Amherst, e io, Luca e Dan ci siamo
messi in macchina per tornare a casa. Abbiamo deciso di prendere la Route 2
verso Boston, che è un po’ più lunga, ma anche molto più bella dell’autostrada.
Luca, seduto di dietro, ascoltava attentamente
la sua playlist, annunciando dopo aver ascoltato le prime note, i titoli delle
canzoni e chi le cantava. Ha un talento strano, questo mio figlio così autistico
e così indietro in tutto: al posto del cervello, ha un banca dati di musica
impressionante, l’equivalente della biblioteca Sormani! Dan guidava e cercava
di capire chi stesse vincendo la partita di football “più importante dell’anno”
(sono tutte “la più importante dell’anno”).
Io guardavo fuori. Il paesaggio è straordinario: i mille laghetti sono congelati, e gli alberi, ancora spogli, sembrano tutti
delle mani con enormi dita che puntano all’insù. Ci sono casette sparse qua e
là, bellissime, invitanti, ben curate. Le colline sono ricoperte di neve
e di alberi e qualcuna ha delle righe che sono le piste da sci. Mentre Jim Croce cantava Operator, mi è venuta addosso
un’emozione. All’inizio pensavo fosse un po’ d’ansia: lasciare Sofia è ancora
difficile per me, anche se la vedo sempre così felice e affettuosa. Ma no, non era
ansia. Ho ascoltato questa sensazione, e l’ho accolta invece di scacciarla per
paura che si trasformasse in un brutto momento. E poi, mentre attraversavamo un
ponticello di campagna, ho capito: era felicità. Prima di tutto mi sono
sbalordita che la felicità sia così simile all’ansia: forse è la forza con cui
entra dentro la cassa toracica e scende veloce nella pancia. Felicità per cosa?
mi chiedevo. Ma poi a starci un po’ a pensare, mi è diventato tutto chiaro:
felicità perché sono immersa in un posto da favola, perché sono estremamente
fortunata ad avere nella mia vita una persona come Dan, che quando guida ancora
mi tiene la mano come quando eravamo morosi. Perché insieme abbiamo fatto
questi tre figli meravigliosi, tutti così diversamente interessanti ma
ugualmente felici. “Madonna, come sono diventata americana!”, mi dicevo per
cercare di placare questa roba qui che era, appunto, la felicità. A volte,
quando arriva, la caccio via per ritornare a pensieri di normale amministrazione,
perché sento di non meritarmela, o di esagerare.
Ma oggi invece me la sono goduta, e mi è
piaciuta moltissimo.
evvai!
RispondiEliminaChee bel post. Bello come quella casina nella neve.
RispondiEliminaL'ho riletto così me lo porto dietro tutto il giorno. Ciao
RispondiEliminaMille cuori per te.
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