Autismo: ci siamo anche noi










“Luca, what do you have?”, gli chiedo ogni tanto. Lui sa benissimo come rispondere: AUTISM. Gli chiedo poi se è bello essere autistici e lui risponde, sempre, di sì.

Poi chissà. Chissà cosa pensa che io gli chieda, o perché. È una di quelle domande a cui ha imparato a rispondere automaticamente, senza capirne il significato, come quando gli chiedo come fa la mucca e lui, ubbidiente, dice MUUU, o quando gli dico: “Come si dice?” e lui risponde THANK YOU anche quando dovrebbe rispondere HELLO, o altro, o ancora, “Who do you love?” e lui MOMMY. Good job, gli dico enfatica, soddisfatta e divertita della sua completa mancanza di spontaneità. Ci si accontenta di poco, da queste parti. Eppure mi piacerebbe davvero sapere se è bello essere autistici e fluttuare sul mondo che non capisce e farsi trasportare come una piuma da quello che accade attorno. Secondo me è bellissimo.

Non parlo degli autistici che riescono a vivere in una casa famiglia, a prendere l’autobus da soli o solo a parlare. A loro si può addirittura chiedere cosa si prova a essere autistici, come si vede il mondo attorno a loro, che domande ci si pone nel confrontarsi con gli altri, nell’essere messi da parte.  Parlo di quelli come Luca, cioè a basso funzionamento, che sono nati senza gli strumenti per partecipare attivamente a una conversazione, normale o bizzarra che sia, o che non saranno mai autosufficienti, che non capiranno mai  che se si attraversa la strada davanti a un camion o se ci si butta in un lago senza saper nuotare, si muore. Gli autistici, insomma, di cui si parla meno, cioè quelli come mio figlio.
Ho notato, nel corso degli anni (venti, per la precisione) che vivo con lui, che la categoria di autismo a cui lui appartiene passa regolarmente inosservata, anche quando l’autismo è protagonista, quando cioè si fanno i discorsi e si organizzano iniziative per il due aprile, giornata in cui gli Stati Uniti e il resto del mondo diventano tutti belli blu.

Come ogni anno, gli eventi in programma per la giornata dedicata all’autismo sono tanti. I grattacieli, gli stadi, i musei, gli ospedali come per magia si illuminano tutti di un blu bellissimo, suggestivo. Si lavora tanto per organizzare i due di aprile, per  organizzare incontri, serate dedicate all’autismo, per pensare a giochi, a caccie al tesoro. Si va su Google per sapere come fare torte a forma di pezzi di puzzle, si ordinano su Amazon magliette, pins, cartoline. Ci si promette, con onesta sincerità,  di essere più attivi, di parlare di più di autismo, di rispettare anche chi è diverso. È sempre una giornata in cui le famiglie autistiche con i loro figli silenziosi si sentono finalmente un po’ protagoniste, al centro dell’attenzione.

È anche il giorno in cui l’autismo sembra quasi un ostacolo non così difficile da superare. Un ostacolo, comunque, ma che si può curare o se non altro nascondere: i mass media propongono le inevitabili storie dei successi, quelle del figlio che non parlava ma adesso sì; che non sapeva farsi da mangiare, ma adesso sì. Si scelgono le storie con la happy ending  perché sono storie che scaldano il cuore, che danno speranza, che fanno pensare che se ci si impegna a debellare l’autismo, poi chi ce l’ha diventa quasi come noi. Magari finiscono con l’essere persone un po’ bizzarre, magari un po’ ossessive, ma incluse nella società. Insomma, tutto molto bello.

Invece a me queste storie fanno sempre venire i nervi, pensa te. Mi dà anche fastidio che ci sia bisogno di un due aprile, come, d’altronde, mi dà fastidio che ci debbano essere giornate commemorative. Ma lo so, sono insofferente, polemica e anche un po’ stronza. Carattere, come diceva la grande Franca Valeri!

Non sopporto questo ostentato ottimismo, questa compassione non richiesta. Non sopporto questa tendenza a far passare sempre il messaggio che l’autismo sia una malattia, e che si possa curare, e che una storia di successo significhi nascondere il più possibile l’aspetto autistico di una persona. Ma soprattutto, non sopporto che le storie come quella di Luca, che fluttua felice senza essere minimamente interessato a “migliorare”, a “far progressi” siano messe da parte, nascosta. E pensare che io la ritengo invece una storia struggente e bellissima.
Sarebbe bello se si parlasse anche dell’autismo a basso funzionamento, quello meno focalizzato verso un progresso inteso come avvicinamento a una vita “normale”. Tipo noi che invece siamo felici se Luca impara a riempirsi il bicchiere quando ha sete, a non arrivare in sala nudo, a mettersi le calze: noi esistiamo, e siamo fieri dei nostri ragazzi. Perché l’autismo è anche questo. E ha una sua dignità, un suo spazio nel mondo, un suo linguaggio.

Il mio sogno è questo: che il due aprile si parli di diritti, ma anche di tolleranza. Ci si ricordi che autismo o no, diversità o no, le persone vanno apprezzate per quello che riescono a offrire al mondo. Ecco, questo sì che sarebbe davvero un giorno da festeggiare.

Intanto mentre aspetto che si cambi rotta, me ne resto qui, a vedere com’è bella Boston tutta illuminata di blu vista dal ponte del MIT, che ha comunque il suo perché.





(Questo articolo è uscito sul sito pernoiautistici.com)
(Nella foto: Luca)





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