Mentre mangio gli avanzi di ieri
"Ho fame", mi dico a voce alta. Mi alzo
dalla sedia su cui sono seduta ormai da ore a lavorare a una traduzione
dall'italiano all'inglese di un bellissimo documentario sull'autismo, e esco
dal mio studio. Lo abbiamo fatto costruire qualche anno fa, il mio studio,
facendo innalzare tre muri in un angolo del seminterrato, che è comunque molto
grande e riesce ancora a ospitare il famoso "Cinema Moretti", una
sala in cui Dan ha piazzato uno schermo immenso, un proiettore, un divano,
delle poltrone, tante casse per il surround
effect e una quantità quasi vergognosa di DVD. Fino a qualche tempo fa, una
decina di nostri amici veniva il mercoledì sera a vedere un film con noi, ma
poi tra che bisogna alzarsi presto e l'incapacità di mettere tutti d'accordo su
che film guardare, l'appuntamento è a poco a poco stato abbandonato.
Faccio i gradini piano, seguita a ruota da Margot, la nuova gattina nera che
mi pedina ovunque, e arrivo direttamente in cucina. Prima di aprire il
frigorifero, dico, sempre a voce alta: "Alexa, play 'This American Life'!
The latest podcast!", e dal robottino circolare che Emma ha lasciato sul
tavolo stamattina, inizia ad uscire la voce di Ira Glass, conduttore della
trasmissione di National Public Radio che mi piace di più.
Mancano due settimane a Natale, e questo podcast
propone la storia di quel giornalista famoso di cui non ricordo il nome che
cerca di rispondere alla domanda che gli ha fatto la sua bimba di quattro anni
a brucialpelo: "Who was Jesus Christ?". Lui, che non è religioso, le
spiega che era una persona che voleva che tutti fossero trattati allo stesso
modo. Qualche giorno dopo, continua il giornalista, lui e la bimba sono in
macchina e passano davanti a una chiesa con fuori esposto un crocifisso. "E quello
cos'è?", chiede lei. Si era dimenticato di dirle, ci spiega, che Gesù era
stato ammazzato per le sue idee e coglie dunque l'occasione per dirglielo adesso. Il racconto contuna: passa qualche mese, è gennaio el a bimba è a casa dall'asilo perché si
festeggia la giornata dedicata a Martin Luther King. Lei chiede ancora una volta
al papà di spiegarle chi fosse questo signore. "Era uno che voleva che
tutti venissero trattati allo stesso modo", risponde ancora una volta il
papà. "Ah, come Gesù...", commenta la bimba. Il giornalista
interrompe la sua storia per dirci di come a lui non fosse mai venuto in mente
che in effetti sì, il loro messaggio era più o meno lo stesso. "Ah, e hanno
ammazzato anche lui?", chiede la bimba.
Io sono davanti al frigo aperto e mi sale un grumo
di pianto in gola, che non riesco a mandare giù in tempo e sento puntualissima una
lacrima bagnarmi la guancia sinistra. Intanto tiro fuori gli avanzi di ieri
sera: il riso basmati condito con coriandolo e lime, il maiale a cubetti cotto
nel sugo di pomodoro, il formaggio cheddar grattuggiato, il guacamole e la
panna acida. Metto il riso e il
maiale in un piatto fondo, apro il mircoonde e schiacco il pulsante con la
scritta one minute. Al beep tiro
fuori il piatto tiepido e ci agguingo gli altri ingredienti, mischio, mi siedo
a tavola e comincio a mangiare.
Mentre assaporo il primo boccone, mi viene in
mente un pensiero che non c'entra niente: cosa è successo alla mia italianità?
Dove è andata a finire? Cosa ci faccio qui, a parlare con un robot, ad
ascoltare la radio americana, a commuovermi per una domanda su Martin Luther
King fatta da una bambina, a mangiare coriandolo e guacamole? Cosa è rimasto,
in questo preciso momento solitario, del mio passato milanese, della mia
cultura, dei miei gusti, della mia lingua, della mia sensibilità mediterranea?
Pochissimo, forse niente, mi dico lascando cadere la forchetta sul piatto. Ad
un tratto il mio cuore si inonda di quella malinconia che ormai mi accompagna
dal lontano 1991, quando cioé decisi che avrei mollato tutto e sarei venuta a
vivere qui. Siamo diventate amiche, io e la malinconia: qualche volta ci
ignoriamo, spesso non ci ricordiamo di essere ormai in simbiosi. Ma a volte
invece lei mi tira delle frecciatine che mi provocano delle fitte tremende al
cuore. Tutti noi che siamo lontani da casa riconosciamo immediatamente il
dolore della distanza, l'impossibilità di ricevere un abbraccio da chi abbiamo
lasciato là, unico rimedio per curare questi momenti difficili.
Adesso ci sono altri gesti, altri sapori, altri
oggetti che con il tempo sono talmente famigliari da non notare neanche più la differenza da
quelli italiani. Sono momenti piccoli di un altro mondo, parti di un'altra
serie di regole e di abitudini, diversi da quelle che avevo allora, e diversi
dai gesti quotidiani e quasi meccanici che fanno le mie sorelle, in Italia, quando mangiano
da sole. Non lo sanno neanche, loro, che
a gennaio qui le scuole sono chiuse per festeggiare il compleanno di Martin
Luther King. Ascoltano altre storie, loro, raccontate in un'altra lingua su
aspetti di un patrimonio culturale diverso e si commuovono per racconti che fanno parte di quella
sensibilità, di quel mondo. Ascoltano storie che non escono da un piccolo robot
lasciato lì senza neanche pensarci due volte da una bimba di dieci anni, mia
figlia, che non parla una parola di italiano. Il loro frigo non ha gli avanzi
che ha il mio e la loro casa non ha un seminterrato. Non vanno in bagno a
fumare, con la finestra aperta anche a dicembre, con una temperatura che
raggiunge i meno dodici.
A volte mi chiedo se ci vorrei davvero tornare,
nel mio universo originale. Mi chiedo se il mio essere Marina non sia stata
ormai troppo condizionato da qui per trovarmi bene anche là, e se avrei davvero
voglia di ritrovare tutti quei gesti e quelle persone che avevo lasciato senza
pensare molto a tutte questi momenti di malinconia e robe varie. Quando sono
venuta qui era tutto nuovo, era tutto da scoprire, tutto da rendere automatico
e quotidiano. Ero impaziente di cambiare, di iniziare una nuova vita, di
sentirmi più a casa qui che a Milano. Ci sono voluti tempo, pazienza e sforzi
immensi per arrivare dove sono arrivata. E adesso che ce
l'ho fatta, credo che dovrei fare gli stessi sforzi per ritornare ad
essere italiana, e un po' mi passa la voglia di ricominciare tutto da capo.
Mi sembra che tutti questi miei pensieri siano parte di un cerchio
antico, aperto quando ero straniera in America e chiuso quando mi sono accorta
di essere diventata straniera in Italia, in quel posto che per anni ho chiamato
casa. È un cerchio che ormai gira da millenni, da quando l'uomo ha lasciato la
grotta in cui era nato per accontentare la sua voglia di avventura, per cercare
un'altra grotta, lontana, e scoprire altri spazi, altri climi, altri mondi.
Sono momenti di consapevolezza e di lucidità difficili da digerire, quando ci si
accorge che in fondo chi decide di diventare straniero lo diventa poi
dappertutto, e che il luogo da dove si è partiti e quello su cui si è atterrato
pur essendo diversi acquistano un aspetto in comune importante: nessuno dei due
è casa. Ci si comincia a sentire sempre un po' ospiti, sempre un po' esclusi, sempre
un po' diversi. Inadeguati, strani, tristi.
"Alexa, stop!", dico a voce alta. Il
piccolo robot ubbidisce e fa calare di nuovo il silenzio in cucina. Sciacquo la terrina, la metto nella lavastoviglie e
riscendo le scale, piano.
Buongiorno Marina, sei sintesi magistrale di Stati d'animo.. Un equilibrio tra il sapore ed il rumore dei tuoi wafer al cioccolato. Con le parole.
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