Il mio undici Settembre

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Era un martedì. Me lo ricordo perché il giorno prima era iniziata la scuola per Luca, e il guidatore del pulmino lo era venuto a prendere presto, ma poi aveva sbagliato strada e ci aveva messo una vita a portarlo a scuola.
Avevamo affittato una casa stupenda, enorme, a una decina di minuti dal ponte di Brooklyn, cioè un quarto d’ora da Chinatown, in una zona di Brooklyn chiamata Clinton Hill. Avevamo trovato, dopo battaglie che non sto qui a raccontare, una scuola per Luca che ci sembrava perfetta. Si chiamava AMAC, e accoglieva soltanto bimbi autistici. La sede in cui Luca era stato preso era sulla diciottesima, tra la quinta e la sesta. Praticamente, per chi conosce Manhattan, a Union square.
Quel martedì decidemmo che Dan, che lavorava a una decina da isolati dalla scuola, avrebbe portato Luca a scuola con la metropolitana, onde evitare ore di pulmino. Io avrei portato Sofia, che aveva due anni, al suo asilo, che era in realtà  la casa di una signora ispanica che accoglieva cinque o sei bimbi e li portava ai giardinetti tutta la mattina. Avrei poi incontrato l’avvocatessa di Luca al distretto scolastico per cercare di ottenere più servizi per lui. Gli uffici erano a Brooklyn Heights, zona, sempre di Brooklyn, divisa dalla parte più a sud di Manhattan soltanto dal'East river.
Era l’undici settembre. Eravamo da poco tornati da una vacanza tutta sbagliata ai Caraibi, e eravamo contenti della scuola per Luca, dell’avvocatessa che stava dalla nostra parte, del cielo blu e della giornata relativamente serena che ci aspettava.
C’era una strada, andando all’asilo di Sofia, che avrebbe potuto essere in una cartolina: sbocciava come se fosse una cosa normale lo skyline di Manhattan, con i suoi grattacieli che rendono il cemento una roba romantica e splendida. Citylights! diceva Sofia ogni mattina dal seggiolino della macchina. Ogni volta le promettevo che l’avrei portata a fare una passeggiata sul ponte, per vederle di sera, le citylights, che erano magiche come i fuochi artificiali.
La lasciai a scuola e proseguii per la mia strada, sempre piena di traffico. Girai a destra e presi la Flatbush Avenue, una delle arterie della città a tre corsie per lato. Avrei poi girato a sinistra subito prima del ponte e avrei tentato disperatamente di trovare parcheggio.
Arrivai all’appuntamento alle nove e un quarto, perfettamente in orario. L’ufficio era al nono piano, e mentre aspettavo l’avvocatessa guardavo fuori dalla finestra l’immagine ormai famigliare anche a chi non c’è mai stato, di Manhattan. Nove emmezza. Dieci meno un quarto, e io lì ad aspettare.
Squillò il cellulare: era Dan, tutto agitato: “Un aereo è entrato dentro una delle Torri Gemelle!” Io, presa a ripetere tra me e me quello che dovevo dire durante la riunione, risposi che dovevo andare. Non avevo ascoltato con attenzione. Ma che cazzo dice? Il solito esagerato…
Lui aveva lasciato Luca a scuola, e si era avviato verso il suo ufficio. Camminando vide un aereo volare bassissimo, e una signora, davanti a lui si fermò , si girò verso di lui e gli disse: “Speriamo che non vada verso il World Trade Center!”. Continuarono a camminare per la loro strada, fino a quando cominciarono a sentire delle urla attorno a loro. Si girarono in tempo per vedere un fumo nero e denso nel cielo azzurrissimo. Fu allora che cercò freneticamente il cellulare nella tasca della giacca e mi chiamò. Ma io stavo aspettando quella stronza dell’avvocatessa, che non era ancora arrivata.
Poi il fumo cominciai a vederlo anche io, dalle finestre dell’ufficio e cercai di richiamare Dan, senza successo. Il panico cominciò a sentirsi nell’aria, e decisi di andare a cercare un telefono pubblico per assicurare mia madre che noi stavamo tutti bene. Arrivai sulla strada e vidi gente correre a destra e a sinistra, con volti sconvolti. Trovai finalmente una cabina, e a mia grande sorpresa notai che davanti a ogni telefono c’erano lunghe file. Aspettai il mio turno e chiamai mia madre, che allora lavorava in Rai. “Non so cosa sia successo, ma qualsiasi cosa sia, noi stiamo bene”. Lei, con voce gelida, rispose: “Hanno appena attaccato il Pentagono”.
Ricordo di aver sentito le mie gambe cedere. La salutai di fretta e corsi verso la macchina: mi venne un istinto enorme di recuperare la mia famiglia e tenermela in casa con me. Sulla Flatbush avenue ormai governava il caos: macchine che correvano contromano, gente che urlava per la strada, l’aria che si faceva scura e puzzolente. Andai subito a recuperare Sofia, e fu allora che scoprii quello che era vermaente successo. Le altre mamme mi dissero di non bere l’acqua del rubinetto, di andare a casa e non uscire, e di pregar Dio che tutti i miei cari fossero sani e salvi.
Mi prese il panico. Io e Sofia andammo immediatamente a casa e accesi la CNN. Le immagini erano spaventose, atroci, e io non riuscivo a contattare Dan per assicurarmi che fosse al salvo, e che Luca fosse anche lui a posto. La CNN annunciò che un secondo aereo aveva colpito l’altra torre. I giornalisti, presi dal panico anche loro, dicevano che c’erano autobombe parcheggiate per la città, di stare a casa.
Io volevo solo parlare con Dan, sapere che tutto andava bene, che sarebbe andato a prendere Luca e insieme sarebbero arrivati a casa. Ma i telefoni non funzionavano, tutto era bloccato: avevano chiuso tutti i ponti, le metropolitane. Avevano blindato Manhattan e da lì non si poteva entrare o uscire.
Dan cominciò a vagare per la città, da solo. Vide il secondo aereo entrare nella torre come una pallottola: in un istante tutti i passanti si fermarono, misero le mani sulla bocca e urlarono. Il fumo soffocava, la paura anche.
Andò alla scuola di Luca, come fecero altri genitori. Molti di quelli che entravano erano coperti di polvere, ovviamente appena usciti dalle Torri andavano ad abbracciare i loro figli che, da autistici, erano assolutamente ignari del terrore negli occhi dei genitori. Dan prese Luca e chiamò alcuni amici per chiedere di poter passare la notte da loro. Io intanto a Brooklyn sentivo soltanto l’odore acre del fumo nero e il terrore di non potermi mettere in contatto con lui.
Fu una giornata interminabile. Verso sera, Dan e Luca attraversarono a piedi il ponte di Brooklyn, insieme a centinaia di persone. Sembrava un esodo di zombie: tutti avevano attorno alla bocca sciarpe o magliette per non respirare l’odore della morte. Tutti erano scioccati, e in silenzio attraversarono il ponto mentre di fianco a loro i due grattacieli erano diventati enormi montagne di morti. Dan aveva comprato una maglietta con la scritta I (heart) new York e la aveva messa sulla faccia di Luca e piano piano si incamminò verso casa. Fu atroce.
Quando li vidi arrivare da lontano riuscii finalmente a piangere. Me li abbracciai, i miei due ragazzi, come se fossero tornati dalla guerra. Presi Luca ignaro in braccio e me lo baciai come non prima.
Non sono religiosa. Ho fatto i sacramenti dei ragazzini, e poi i miei genitori mi dissero che dopo la cresima potevo non andare a messa. Da allora sono entrata in chiesa due volte: per il funerale di mio padre e per il mio matrimonio, fatto in un paesino del Piacentino senza comune. Ma quella sera mi venne invece di andare in chiesa, forse perché avevo bisogno di un posto silenzioso, tranquillo, di raccolta. Entrai nella chiesa battista dietro casa mia, quella che passavo tutto i pomeriggi per andare a giardinetto.
Ero l’unica donna bianca, e infatti quando entrai una cinquantina di facce si girarono, smisero di parlare e nel silenzio seguirono i miei passi che mi portarono a una delle panchine di legno scuro. Il pastore disse che quella sera invece di dire la messa, avrebbe ascoltato i racconti dei fedeli, di quello che era successo loro durante la giornata. Ci fu un secondo di silenzio e poi a poco a poco una dopo l’altra le persone si alzarono e raccontarono: c’era chi era scappata dal trentesimo piano, chi aveva aiutato il loro collega sulla sedia a rotelle, chi aveva abbracciato un poliziotto o un pompiere che invece di evacuare saliva per soccorrere chi era rimasto indietro. Io ascoltavo sconvolta e piangevo come un vitello. Durò più di due ore: ascoltai tutti i racconti, le preghiere e il supporto che ci si dava a vicenda. Il pastore ci fece alzare e pregare per chi non era ancora arrivato a casa. Alla fine della cerimonia, molte donne vennero ad abbracciarmi e a ringraziarmi di essere con loro. Io piangevo e abbracciavo.
Tornata a casa feci la litigata più feroce mai fatta con Dan: mi faceva incazzare il fatto che la televisione parlasse di eroi, mentre per me erano soltanto pompieri che facevano il loro lavoro, che gli eroi sono diversi. Non sopportavo che questa enormità fosse diventata un’occasione di un momento di patriottismo fuori luogo: quelli che  muoiono in situazioni come queste, dicevo, sono semplicemente persone e chissenefrega che sono americani, francesi, kenioti. Dan di infuriava a sentirmi criticare il lavoro di chi era pronto a morire per aiutare più gente possibile.
Ci vollero mesi, forse anni, prima che Dan mi desse ragione. In realtà da New York divenne difficile essere obbiettivi: mi ricordo di aver per un momento creduto che la guerra in Afghanistan fosse giustificata, e mi ricordo di aver avuto paura quando il presidente, che era quel criminale di guerra di Bush, lasciava il Paese: era come un genitore che se ne va e lascia i bimbi al buio. Pazzesco.
Sono passati undici anni, milioni di innocenti, miliardi di parole retoriche, di strumentalizzazioni, di bandiere a stelle e strisce e bimbi che piangono davanti alla telecamera. Eppure, quel terrore lì, quell’odore di morte che rimase nell’aria, nei vestiti, nei capelli per mesi è ancora presente come se fosse ieri.
L’unica persona che conosco morta quel giorno è il papà di un bimbo all’asilo di Sofia. Era un architetto e lavorò tanto sulle Torri, che quando sentì quello che era successo, si precitò per aiutare e non tornò più indietro. Me lo ricordo perché il giorno dopo feci le lasagne e le portai a casa sua, e la moglie mi abbracciò in silenzio.


Commenti

  1. Dopo tanti reportage, documentari e servizi...Credo che nulla sia più forte della vita stessa che incontra la morte. Il tuo 11 Settembre lascia senza parole...
    http://inchiostroecalamai.blogspot.it/?spref=fb

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